Antonio Prete

Un ricordo

(articolo originale in «L'immaginazione», 299, maggio-giugno 2017)

Le immagini che permangono di un amico scomparso possono comporre, certo, un ritratto, ma con delle linee che hanno un punto oscuro in cui si perdono, e questo punto è il rimpianto per una presenza affidata ora soltanto al ricordo, alla rievocazione, al dialogo silenzioso con quel che è stato. Nel caso di Antonio Melis, questo rimpianto non riguarda solo un’amicizia sottratta di colpo alla sua consuetudine d’incontro e di conversazione, ma anche la privazione subita da un esteso e vigoroso campo di sapere compendiabile nel cartiglio letterature ispano-americane. Perché Antonio Melis di questa area – del suo plurale e vitalissimo fervore – era un grandissimo conoscitore e interprete, oltre che un solerte traduttore. Un traduttore che intendeva l’atto del tradurre nella sua più classica estensione: trasportare e rappresentare in un’altra lingua non solo un testo, poetico o narrativo, ma la cultura cui quel testo appartiene. E questo, se riferito agli scrittori viventi, significava per Antonio istituire occasioni – per la nostra cultura e per le istituzioni universitarie – nelle quali quegli autori potessero incontrare un pubblico di studiosi e studenti e con essi confrontarsi. Questo ha permesso a me e a molti altri amici di conoscere scrittori e poeti latino-americani – peruviani, cileni, uraguayani, cubani, nicaraguensi, messicani, colombiani, e così via – che Antonio invitava a seminari e letture, o per via diretta o intercettando, grazie alla sua personale amicizia, il loro passaggio italiano o europeo. Erano seminari e letture che avevano quasi sempre un loro conviviale strascico: occasioni splendide, in cui l’amicizia si alimentava con l’affabulazione e con il dialogo tra mondi lontani e tra esperienze diverse. Della preziosa e attivissima funzione di ponte svolta da Antonio tra la cultura italiana e quella, variegatissima, del mondo ispano-americano, mi sono reso conto anche nell’occasione di un mio breve soggiorno in Messico (ero invitato, nel novembre 2005, al Festival Letras del mundo, basato su letture pubbliche di versi e di prose seguite da incontri con gli ascoltatori in teatro e nelle Università, e questo in tre città diverse): molti degli scrittori latino-americani che erano lì mi chiedevano se conoscevo Antonio Melis, e ognuno mi raccontava di un incontro, di una traduzione, di una corrispondenza, di una condivisione di momenti.

Sia nella partecipazione, con testi e discussioni, alla rivista “Il gallo silvestre” (1989-2004) e soprattutto a “In forma di parole”, la bellissima rivista fondata e diretta da Gianni Scalia, sia nell’attività svolta come docente nei corsi di Lettere a Siena e nel Dottorato di Letteratura Comparata e Traduzione del testo letterario, l’apporto di uno studioso come Antonio Melis è stato decisivo. Per lui, l’esercizio della traduzione e il lavoro critico si fondavano su un rigore d’attenzione che privilegiava un orizzonte antropologico. Né poteva essere altrimenti, trattandosi, nel caso delle traduzioni e interpretazioni, di scritture poetiche e narrative fortemente radicate in una cultura, nelle sue tradizioni: era per questa attitudine che l’arco delle sue passioni e cure andava da César Vallejo a Ernesto Cardenal, da José María Arguedas a José Carlos Maríategui. Oltre a queste figure ricorrenti nella sua ricerca, e dopo le monografie giovanili su Neruda, su Lorca, su Che Guevara, altri autori di volta in volta hanno attratto le attenzioni di Antonio: Carlos Germán Belli, Alejandro Romualdo (le cui poesie ebbi il piacere di pubblicare, appunto con le traduzioni di Antonio, sul primo numero del “Gallo silvestre”), César Calvo, Alejo Carpentier, Luis Hernández, Antonio Cisneros, Raul Zúrita. Di grande rilievo l’ultima impresa alla quale ha partecipato: la cura e traduzione per Adelphi delle opere di Borges (in questo cammino benissimo affiancato da Lucia Lorenzini).

Il grande interesse di Antonio per le lingue indigene precoloniali e coloniali lo ha portato a studiare il quechua e a frequentare quelle zone della letteratura che si ponevano sul confine tra le lingue indigene sopravvissute e la lingua egemone (e dominatrice). Su questo piano ha affrontato il caso di poeti di cultura autoctona che scelgono di scrivere in spagnolo, come accade al poeta mapuche Jaime Louis Huenún, autore di un bel libro come Puerto Trakl (2001), nei cui versi tuttavia forte è la risonanza della lingua sottostante e del suo mondo. Ma ha anche seguito il caso singolare della poetessa Rayen Kvyeh, appartenente anche lei al “popolo della terra”, ai Mapuche: poiché costei dall’oralità era passata alla scrittura – dopo che il suo popolo, negli anni Settanta, si era dato una lingua scritta – Antonio si riappropriò rapidamente di questa nuova convenzionale lingua scritta per poter tradurre in italiano, per la prima volta, quella poesia (accompagnando lo studio con puntualissime osservazioni sul passaggio dall’oralità alla sopravvenuta rappresentazione grafica costruita sull’inventario alfabetico castigliano, un “grafemario” che in rapporto al parlato mapuche risultava “al tempo stesso sovrabbondante e manchevole”). Nella poesia di Rayen Kvyeh etnos e visionarietà si fondono, e la parola poetica è affidata alla musica e al gesto rituale, con effetti di notevole fascinazione (m’è accaduto di frequentare e presentare la poetessa mapuche, sostituendo Antonio, a Milano, alla Casa della Poesia, e a Torino al Salone del Libro).

Le attività di ricerca, di lavoro culturale e di insegnamento che Antonio Melis svolgeva erano per dir così rese leggere e insieme affabili dalla natura di un carattere aperto, insieme ironico e discreto, pieno di attenzioni per l’interlocutore e sorridente. Colleghi per molti anni, e insieme a un altro Antonio – Tabucchi – contigui di stanza nella Facoltà, ci trovavamo in sintonia su moltissime cose, anche nel considerare ridicole le posture accademiche. Per Antonio Melis dietro questi modi c’era una persuasione: se il sapere è fondato su una vera passione, le forme della sua trasmissione e della sua cura non hanno bisogno di schermi e di ruoli, perché è proprio di quella passione il voler condividere, come le è naturale il convito. Per questo, ora, il ricordo di un amico è un punto da cui si sventagliano moltissime scene: conversazioni, seminari, incontri conviviali richiamano luoghi e ambienti, voci e volti, stagioni e città. Questa sequenza, nel caso di Antonio Melis, rinvia a una convinzione: il rapporto con l’alterità – di lingua, di cultura, di storia – è il fondamento sia della conoscenza di sé sia di un possibile vivere civile.