Nino Zampieri
Il Liceo
Antonio arrivò al Tito Livio In III B, una classe che aveva fama di essere di buon livello e con ragazze molto belle. Fu accolto con curiosità: i nuovi ingressi erano sempre stati o di alunni bocciati che conoscevamo già o di provenienti da altre sezioni, e anche questi non avevano niente da dirci. Antonio invece destò in molti di noi parecchia curiosità. Intanto era bravo, più dei più bravi della classe, Mario Mancini e alcune ragazze, tra cui spiccava Claudia Metelli. Soprattutto pareva che la sua bravura fosse un dono naturale. Antonio studiava, e io che spesso mi sono preparato insieme a lui, so che studiava con metodo e dedizione. Ma aveva una tale facilità nell'apprendere e una "grazia" nel porgere le risposte da apparire come un ragazzo così dotato da non aver bisogno di studiare.
Studiavamo tutti, e molto. Il Tito Livio era una scuola tradizionalista severa e selettiva, a nessuno veniva in mente di arrivare impreparato alle interrogazioni, di non seguire le lezioni, di non prendere appunti. Venivamo interrogati molto spesso, e poi, durante la mia carriera di insegnante, mi sono sempre chiesto come facessero a conciliare spiegazioni compiti e interrogazioni frequenti in una classe che superava le 30 unità. C'è da dire che nessuno fiatava e che il dialogo studente-insegnante era del tutto inesistente. I nostri professori erano molto noti e stimati, per lo più immeritatamente. Alcuni di loro avevano pubblicato dei modesti testi scolastici e ovviamente ce ne imponevano l'acquisto. Antonio ovviamente aveva conservato i testi degli anni precedenti. C'è un aneddoto importante: venne interrogato nelle prime settimane di scuola in italiano, sul Foscolo. Il professore (Tosto) gli chiese con che grado Foscolo era uscito dall'Accademia Militare. Antonio rispose che non lo sapeva, che sul suo libro non c'era. Tosto gli chiese che libro avesse e Antonio rispose "Il Sapegno". "il Sapegno – disse Tosto con sufficienza – non è un cattivo libro, ma come vede certe cose non ci sono". Per me Sapegno in quegli anni era un mito, ma anche se a casa c'era la sua storia della letteratura non avrei mai pensato che si potesse studiare su un libro diverso da quello adottato.
Antonio parve, a quelli di noi più sensibili e più disgustati dal carattere aneddotico dei nostri testi, il portatore di una cultura più fresca e più critica. Quasi tutti i nostri insegnanti – ne salverei forse uno – erano delle cariatidi che avrebbero potuto insegnare le stesse cose nello stesso modo un secolo prima. Distaccati, presuntuosi, inaccessibili. L'insegnante di storia dell'arte aveva già insegnato a un paio di generazioni precedenti e usava un metodo semplicemente descrittivo (descrivendoci quello che tutti noi vedevamo nella riproduzione) e assolutamente astorico. Il prof Tosto ci divertiva raccontandoci aneddoti sulla signorina Beatrice o sulla signorina Laura. Il preside, temutissimo, conoscitore maniacale dei Promessi Sposi, ogni tanto capitava nelle aule e faceva domande su particolari minimi del romanzo, ad esempio il numero di spilloni dell'acconciatura di Lucia. Era quindi considerato un grande preside.
Nel complesso il tanto studio ci portava ad una preparazione strettamente nozionistica e scollegata.
Antonio Mario e io diventammo amici, non mi pare che Antonio si integrasse nella classe e direi che non gli interessava più di tanto. Aveva buoni rapporti con tutti e pur avendo le caratteristiche per diventare leader non era interessato a scalfire le "gerarchie" della classe.
Tornavamo a casa a piedi insieme, abitavamo abbastanza vicini, separati dalla ferrovia. In questi tragitti si parlava ovviamente di scuola e di professori, ma Antonio fu il primo a parlare di politica, in un ambiente in cui farlo era se non proibito senz'altro di cattivo gusto. Fu lui a farci interessare a ciò che stava succedendo a Cuba e a proporre (sembra esagerato) un'analisi marxista della società.
Alla fine della scuola Antonio Mario e io ci iscrivemmo a Lettere, la decisione era maturata nel corso dell'ultimo anno, se non prima.
L'Università
Nel 1960 la Facoltà di Lettere di Padova godeva ancora della fama dei suoi straordinari insegnanti degli anni '40: Marchesi, Valgimigli, Valeri. C'era ancora – ma di una generazione più giovane - il prof. Tagliavini che era stato loro collega (non feci il suo esame) che godeva tra gli allievi fama di uomo simpatico e strambo (non era raro trovarlo nei cessi degli studenti a trascrivere su un blocchetto le scritte sui muri, così come aveva trascritto dai banchi delle aule i tanti modi per dire cazzo e figa).
C'erano molti professori validi e noti. Tra questi Vittore Branca, che aveva da poco pubblicato gli studi sul Boccaccio, e Sergio Bettini, le cui lezioni sull'arte bizantina (insieme all'adozione dell'Argan) fecero scoprire a me e Mario (non so Antonio) un modo del tutto nuovo di avvicinarsi all'arte. Entrambi grandi studiosi e pessimi docenti. Branca si vedeva di rado, circondato da uno stuolo di assistenti, come Sordi nel film Il Primario – tra cui il giovanissimo Balduino che poi divenne mio amico – ai quali delegava di volta in volta le lezioni in un'aula affollatissima.
Bettini aveva fatto ciclostilare le dispense e durante le lezioni ne leggeva una parte. Mai una battuta, un sorriso, una pausa. Noia mortale, per fortuna spesso non c'era e ci sentivamo liberi di non andare a lezione. Altri insegnanti ci sembravano (forse MI sembravano) modesti e poco interessanti. Tra questi il docente di Letteratura Latina, quello di geografia, quello di storia dello spettacolo. Non so giudicare adesso se fossero insegnanti validi o no. Un caso a parte erano il prof Sartori e il suo fido compare-assistente Ramilli, due personaggi sadici che sembravano emersi da un film del terrore, che sembravano godere nel mettere a disagio gli studenti durante l'esame. Antonio, che non si lasciava intimidire prese ovviamente 30 (o 30 e lode), io feci il più disastroso esame della mia vita e per molti anni lo rivissi nei sogni.
Folena e Pullini furono per me e per Mario e credo anche per Antonio i due docenti più importanti, per la loro preparazione, per come tenevano le lezioni, per il rapporto con gli studenti. Mario si laureò con lui, io e Antonio prendemmo la strada di Meo Zilio. Ci avvicinammo a lui perché ci interessava la materia. Antonio mi aveva fatto conoscere le poesie di Guillen, io avevo appena letto l'Aleph di Borges. Mi sono sforzato invano di ricordare l'argomento delle lezioni di Meo Zilio. Lui era molto più interessato a problemi linguistici che letterari. Ci appariva più come un uomo di potere che un docente, era la materia quella che ci affascinava. Trovammo gradevole e gentile il prof D'Angelo che ci teneva (eravamo in pochissimi!) il corso di lingua spagnola, facendoci leggere e commentare alcune poesie (a distanza la scelta di queste poesie non è delle migliori).
I primi due anni, almeno, io e Antonio preparammo buona parte degli esami insieme, prevalentemente a casa sua, in via De' Menabuoi. Facevamo delle pause durante le quali scendevamo in giardino a tirare a gara sassetti contro un palo per stendere la biancheria. Eravamo molto competitivi e giocosi. Man mano che si avvicinava l'esame (ricordo con precisione quello di Filologia Romanza) le pause tendevano a prevalere sui momenti di studio, segno che eravamo ormai pronti (e stufi).
La vita politica all'Università in quegli anni era una specie di copia in tono minore della politica nazionale. Noi eravamo dell'UGI, ma erano pochissime le riunioni, non si facevano assemblee. Il presidente – poco amato ma già allora potente – era Gianni de Michelis.
Non riesco a trovare la tessera e quindi non so essere preciso sulla data, ma ricordo perfettamente quando Antonio e io andammo in via Dante alla sede del P.C.I. ad iscriverci. A casa mia – nonostante fosse una famiglia di sinistra e da anni i miei familiari iscritti al partito – la cosa fu presa con spavento, paura delle possibili conseguenze. In realtà le conseguenze furono due: fummo automaticamente scomunicati e più tardi mi fu negata la promozione da soldato semplice a caporale!
Mario e io per avere un lasciapassare che ci evitasse storie con i goliardi andammo a lavorare prima alla CLEUP (si chiamava ancora Ufficio Dispense) e poi al Centro d'Arte, dove restammo per tutto il periodo universitario facendo "carriera". Antonio non venne, ma so che non ebbe mai alcun problema con i Goliardi, forse perché il suo sguardo li metteva in soggezione.
I diari della Lambretta
La Lambretta
Magari avessi scritto un diario! Così almeno potrei ricostruire qualcosa di quel viaggio avventuroso e fantastico nella Spagna franchista del '63.
La Lambretta era una 150 cc (il che consentiva di viaggiare in autostrada), di quelle – per chi si ricorda quei vecchi modelli – col parafango anteriore largo, comprata con i soldi di una borsa di studio.
L'avevo dotata di un portapacchi posteriore su quale caricammo due grossi sacchi (tipo sacco da marinaio). Il casco non era allora obbligatorio: io avevo un caschetto di cuoio tipo aviatore di biplano, Antonio era a capo scoperto. Soltanto io avevo la patente e quindi guidai per i 5.600 chilometri che percorremmo in 32 giorni di viaggio.
Ricordi
Mi ha colpito ripensandoci quanto poco mi ricordi delle cose che abbiamo visto. Sicuramente come giovani intellettuali andammo a vedere tutto quello che c'era da vedere, i musei, le cattedrali... Sicuramente mangiammo la paella a Valencia, così come - ma questo lo ricordo - vedemmo la corrida a Siviglia. Ho tanti piccoli altri flash, come una coda di operai una mattina presto alla quale ci aggregammo per curiosità per scoprire che vendevano "aguardiente", che comprammo e bevemmo (era anice). Ricordo che facemmo il bagno in un fiume (ma non ricordo quale, forse il Guadalquivir) e che per raggiungerlo ricoprimmo noi, la moto e i bagagli di sabbia finissima che ci accompagnò per parecchi giorni.
Sono passati più di 50 anni, la mia memoria non è mai stata un gran che, e non ho mai avuto modo di riparlarne con Antonio per rinverdire gli avvenimenti e le tappe del percorso. Inoltre si sovrappongono le immagini di viaggi successivi in Spagna, tanto che non so dire se alcuni ricordi sono da attribuire a questo o a quel viaggio. Per esempio: siamo andati a Saragozza, di cui ricordo la Cattedrale? Direi di no, pensando al percorso. Siamo stati di certo a Burgos, città che ci piacque molto e dove non sono più tornato.
Ricordo che fummo molto impressionati dai cori lignei delle cattedrali, così imponenti. Ricordo che seguimmo le orme di El Greco, andando a vedere tutte le sue opere anche in chiesette fuori dagli itinerari principali, fino a non poterne più. E oggi è un pittore che non mi piace tanto. Ricordo che tutti (o quasi) i camerieri coi quali scambiammo qualche parola si chiamavano Ramon, e la cosa ci faceva sempre più ridere. Ricordo che mi emozionò la Alhambra e che mi piacque moltissimo Granada coi muri bianchi e i balconi traboccanti di gerani rossi. Ma d'altra parte in questo resoconto le impressioni artistiche sono la cosa meno interessante.
Il primo giorno di viaggio
Partimmo la mattina presto. Allora si poteva viaggiare in autostrada, noi andavamo piano, al margine della carreggiata, il traffico era modesto. Non avemmo mai sensazioni di pericolo né di essere fuori luogo, cosa che vivrebbe oggi chiunque andasse a 70 km all'ora in autostrada.
Arrivati a Verona, sicuramente dopo almeno un'ora e mezza, ci fermammo in una piazzola di sosta. Avevamo il culo in fiamme. Discutemmo se tornare indietro oppure proseguire, vinse ovviamente la seconda che ho detto, e quel giorno arrivammo a Genova! Sono poco meno di 400 Km (370 con le strade di oggi) e con le varie soste arrivammo verso sera. La mattina seguente uscendo dall'alberghetto per andare a fare colazione non trovammo più lo scooter. Fu un momento di panico, ci mettemmo poco a scoprire che l'avevano spostato dietro un angolo per pulire la strada
Non ricordo niente dell'attraversamento della Francia. Allora la Francia era molto costosa e quindi sicuramente cercammo di fare il viaggio più rapidamente possibile. Da Genova a Biarritz, dove ricordo che pernottammo, sono più di 1000 km, per cui penso che viaggiammo per due o tre giorni. Sicuramente dormimmo e mangiammo nei paesini, dove le locande e le trattorie erano più abbordabili.
A questo punto è opportuno che io dica della mia presunta avarizia, di cui mi accusava Antonio. Io non sono mai stato avaro, durante il viaggio cercavo di essere accorto. Non avevamo molti soldi e non era facile allora farseli spedire da casa. Quindi dovevamo conciliare le spese con il programma. Antonio non condivideva alcune limitazioni, ma furono queste che ci consentirono di attraversare la Spagna. Man mano che procedevamo il nostro tenore di vita, soprattutto riguardo ai posti dove dormire, andò decisamente peggiorando. Il peggio del peggio fu la notte a Marsiglia, al porto, di cui parlerò in seguito.
Da Biarritz a San Sebastian
A Biarritz, al confine con la Spagna, alloggiammo in un alberghetto da vacanza balneare. Eravamo ancora in Francia e quindi si cenava alle 20. Era una pensioncina carina, a cena era pieno di famiglie coi bambini. Ricordo che mangiammo del pesce, tipo filetti di sogliola o qualcosa del genere. Il giorno dopo eravamo finalmente in Spagna, a San Sebastian, dove passammo la giornata in spiaggia, a fare bagni, prendere il sole e soprattutto a riposare culo e schiena dopo i tanti chilometri di moto.
La sera alle 20 cercammo di mangiare. Avevamo fatto 50 Km ma era cambiata la nazione e quindi le abitudini. Alle 20 i ristoranti erano chiusi o aperti con le sedie sopra i tavoli, coi camerieri che facevano le pulizie. Ci dissero di tornare alle 22. Non so come passammo quelle due ore. Alle dieci in punto eravamo già nel ristorantino che avevamo scelto, unici clienti – e lo fummo per più di mezz'ora.
Un pranzo a Madrid
Verso sera cominciavamo a girare in cerca del posto dove mangiare. Cercavamo bettole, taverne, ristorantini, posti economici e popolari. A Madrid ci trovavamo in un quartiere in cui non riuscivamo a trovare niente di adatto. Tutti posti sfarzosi e raffinati. Finalmente trovammo il posto giusto, luci basse, pareti scrostate, nessun cameriere in vista. Entrammo e da dietro una colonna si materializzo un maitre in smoking che ci fece accomodare. Comparvero molti camerieri elegantissimi (noi non lo eravamo) Eravamo gli unici, come quasi sempre alle 10. Ci diede dei menu eleganti con piatti costosissimi. Noi ci vergognavamo dei nostri pochi soldi, ordinammo delle tortillas e per far vedere che mangiavamo solo quelle non per ragione di denaro ma perché non avevamo fame non toccammo nemmeno il pane. Uscimmo rapidamente, affamati come prima.
La lingua
All'inizio del viaggio se dire o chiedere qualcosa ci preparavamo bene, facendo anche delle prove; poi quando ponevamo la domanda lo facevamo con tale sicurezza da dare l'impressione che parlassimo bene lo spagnolo, quindi ci arrivava una risposta fluente e veloce di cui capivamo molto poco. La conversazione più frequente era col benzinaio: la mia Lambretta era di un modello (almeno il motore) non ancora diffuso in Spagna e doveva utilizzare miscela al 2%. Quindi chiedevamo il pieno "al dos por ciento". "Como dos por ciento, cinco por ciento" "No, es un modelo italiano, al dos por ciento", Dopo un po' di questa manfrina il benzinaio prendeva un annaffiatoio, ci metteva la benzina dal distributore, poi versava l'olio in una lattina da pomodoro con una piega a beccuccio, versava l'olio nella benzina e mescolava con un mestolo di legno. Figurarsi la precisione! Il risultato era che ogni 100 – 150 Km dovevamo fermarci, smontare il tubo di scappamento, pulirlo da fuliggine e detriti con un bastoncino e uno straccetto che erano diventati componenti importanti del nostro bagaglio, rimontare il tubo e ripartire. Eravamo diventati bravissimi, come i meccanici di una squadra corse.
Cercavamo di non sembrare proprio dei pivelli, dei turistini. Facevamo di tutto per adeguarci al modo di parlare. Ordinavamo dos cafés e il barista ci correggeva "do café". La mattina dopo, magari in un'altra città chiedevamo do cafè e il barista ci correggeva "dos cafés". Furono poche le volte in cui indovinammo la pronuncia giusta.
L'anguria
Un giorno, nel tragitto verso Siviglia trovammo un baracchino che vendeva angurie: ne comprammo una con l'intenzione di mangiarla alla prima ombra che trovavamo lungo il percorso. Non sapevamo dove metterla, così Antonio la infilò sotto il braccio. C'era molto caldo, la terra era arsa e gli unici alberi erano olivi che non facevano ombra. Percorremmo almeno 100 Km senza trovare un'ombra degna di un'anguria. Quando finalmente la trovammo, Antonio era anchilosato, dovetti sfilargli l'anguria da sotto il braccio, che per parecchio tempo non riuscì a muovere. Ovviamente l'anguria era diventata bollente.
Tapas e vino tinto
Una sera, (a Burgos?) decidemmo di cenare con le tapas che nelle osterie davano per ogni bicchiere di vino. Era una strada tutta di locali, uno dopo l'altro, popolari, scuri. Erano poca cosa, una fettina di salame, qualche oliva, un po' di caracoles, una scheggia di formaggio… Quindi per mangiare qualcosa bisognava bere un numero incredibile di quel vino tinto, rozzo e denso, buono anche. Per fortuna ogni quattro cinque osterie c'era un frittolino con cartocci di patate o pesce, per cui qualcosa di solido riuscivamo a mettere nello stomaco. Ma il risultato fu che ci ubriacammo pesantemente e tornammo allegri e traballanti nella nostra stanza. Nelle prime tappe del viaggio cercavamo alloggio in alberghetti, poi man mano che i soldi si esaurivano cercavamo stanze a poco prezzo nelle case. Qui avevamo per fortuna il bagno in camera. Io vomitai nel water, Antonio, in mutande e maglietta vomitò nella doccia. Quindi aprì l'acqua e cercava con le mani di fare scendere il vomito nello scolo, ridendo come un matto. Tutti due ci "imboressammo". Capisco che non è una bella scena, ma è uno dei ricordi più vividi del viaggio. La mattina – beata giovinezza – stavamo abbastanza bene. Però non bevemmo più così tanto.
Il serrano
Il governo franchista aveva rispolverato una antica tradizione spagnola. Se si affittava una stanza, in una pensione o in una casa privata, non ti davano le chiavi. Quando si rientrava e il portone era chiuso bisognava battere le mani o chiamare e poco dopo arrivava il serrano, di solito un anziano munito di bastone che batteva rumorosamente per terra. Costui senza che noi dicessimo una parola ci apriva il portone in strada e ci accompagnava alla stanza. Un bel controllo delle persone! La cosa buffa è che sia io che Antonio ci vergognavamo di questo modo cretino di chiamare e quindi, come due bambini: tocca a te, no tocca a te. Poi ci liberavamo e entrambi battevamo le mani e chiamavamo Serrano!!!!
La corrida
Andammo a vedere la corrida nella Plaza de toros de Sevilla. Prendemmo due biglietti di costo medio basso, "sol y sombra", che dopo una prima parte di corrida sotto un sole implacabile ti consentivano di vedere le ultime toreade all'ombra. Concordammo che era uno spettacolo orrendo. Soprattutto, da profani, non riuscivamo a cogliere le differenze, a capire perché qualche volta il torero veniva applaudito e qualche volta fischiato. Ci infastidì il sangue, il taglio dell'orecchia e il modo in cui il toro morto veniva trascinato fuori dall'arena. Io non sono mai più tornato a vedere una corrida, non so se Antonio abbia poi cambiato idea.
L'asino
Uno dei pochi pranzi che ricordo fu in un paesino minimo della Mancha, lungo una strada assolata e semideserta. Ci fermammo in una locanda povera e popolare, che sembrava rimasta ai tempi di Don Quijote, e mangiammo una squisita zuppa di ceci. Il ricordo rimane soprattutto perché nel cortile, per tutto il tempo del pranzo, sentimmo ragliare disperatamente un povero asino, legato al sole nel cortile. Una scena decisamente poetica, per chi sa fare queste robe.
Il bagno nell'Atlantico
Eravamo sulla via di ritorno, strada lungo il mare, dopo Valencia. Sole a picco e caldo. Scegliemmo un posto dove fermarci per fare il bagno, ci spogliammo e di corsa entrammo nell'acqua dell'Atlantico. Di corsa, per arrivare dove non si toccava. Quando fummo con l'acqua ai polpacci entrambi fummo colti da crampi per quanto era gelida. Avevamo fatto il bagno a San Sebastian e poi a Santander, ma lì la temperatura era mitigata dalla Corrente del Golfo. Uscimmo subito e dovemmo restare per molto tempo al sole a scaldarci. Molti anni dopo andai in Algarve: solo i tedeschi stavano in acqua ore come se niente fosse.
Marsiglia
Eravamo stanchi, squattrinati. Si era anche rotto il portapacchi e avevamo dovuto comprarne uno nuovo. A Marsiglia fummo colti da un acquazzone, la prima pioggia da quando eravamo partiti. Ci rifugiammo in un portone. Qui c'era un marinaio più probabilmente francese che spagnolo, che parlava però in un gramelot di lingue e parole diverse, italiane francesi spagnole e inglesi. Per tutto il tempo della pioggia ci tenne una conferenza sulle puttane, sulle diverse abilità in base alla nazione, su come sceglierle, quanto pagare ecc. Fu divertente. Credo che nessuno di noi due abbia fatto tesoro di quelle indicazioni.
Negli anni ho viaggiato molto, ho dormito in capanne col pavimento di terra e il tetto di paglia, sono stato in stanze di famiglie in India e in Indonesia… ma non ho ricordi che superino la sporcizia del nostro alloggio a Marsiglia. Eravamo nella zona del porto. Sembrava che le lenzuola e le federe fossero state usate da generazioni di marinai, carbonai, pescatori… Dormimmo con i pantaloni (del pigiama?) infilati nei calzini, con la camicia con le maniche lunghe, e infilammo una maglietta sul cuscino come federa. Nessuna parte del nostro corpo era a contatto con la biancheria (!). Eravamo giovani e stanchi e dormimmo. Il giorno dopo c'era il sole.
La fine (ingloriosa)
Gli ultimi chilometri in Francia li facemmo sotto una pioggerellina finissima e fastidiosa. Prima di arrivare al confine c'era anche coda.
Alla frontiera con l'Italia, a Ventimiglia, ci chiesero di aprire i nostri sacchi: Avevamo comprato un paio di bottiglie di brandy Fundador e Carlo Primero, più di quanto permesso. Ma le bottiglie erano nascoste in mezzo alla roba sporca di un mese e il doganiere ci chiese subito di chiudere il sacco e andarcene via.
Continuava a piovere, non avevamo ovviamente un'attrezzatura adeguata. Andammo alla stazione ferroviaria di Ventimiglia a informarci se si poteva spedire la Lambretta. La cosa era possibile, quindi spedimmo la moto e ci comprammo con gli ultimi soldi i biglietti del treno.